La ricostruzione di Cassino nel libro inedito di Giuseppe Poggi

Gigliola Tallone febbraio 2011


Don Odorisio, Mimmo Poggi, la moglie Elide (incinta della figlia Andreina) e l'amica Ines, Montecassino primavera 1948
Statua di San Benedetto, unica sopprvvissuta alla distruzione, acefala e col corvo (in basso a destra appoggiato alla veste del Santo) che, secondo la leggenda, portava il pane inviato dalla sorella Scolastica dal vicino convento femminile). Foto prov. Andreina Poggi
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Giuseppe Poggi, detto Mimmo, nato a Scarperia il 15 luglio 1903, era figlio di Antonietta Tango, (sorella di mia nonna Eleonora e di Virginia) e il pretore e avvocato Carlo Ambrogio Poggi, figlio di Enrico, storico insigne, Ministro Guardasigilli che proclamó l’annessione di Firenze al Regno d’Italia, primo Presidente della Corte di Cassazione a Firenze e Senatore del Regno.
Il fratello di Enrico, Giuseppe Poggi, architetto e urbanista, aveva dato il definitivo assetto alla cittá di Firenze dopo l’unificazione.
L’architettura era quindi nelle vene della prestigiosa famiglia di nobili fiorentini, e il giovane, omonimo del famoso zio, si avvia agli studi di architettura a Firenze agli albori degli anni ’20, ospite della zia materna Virginia, detta Agar, nella casa di via Fornace 9, dove l’impegnata pacifista il 1921 fonda la sezione fiorentina della Lega Femminile Internazionale per la Pace e Libertá (WILPF).
Questo avvento vede testimone il giovane Mimmo, che riconoscerá sempre la grande influenza di Agar, affettuosissima zia e donna d’ingegno, giornalista e scrittrice, votata alla missione della pace.
L’ambiente ricco di fermenti culturali, frequentato da intellettuali e artisti anticonformisti, lo arricchiscono di particolare umanitá e sensibilitá artistica. Di lui Piero Bargellini scriverá “Sopraintendente amico degli artisti e dei poeti”.
Tra i suoi importanti lavori, forse il meno conosciuto, è il restauro della millenaria Cappella di Badia a Settimo, dove vennero deposti i resti del poeta Dino Campana, l’infelice e indimenticato ospite della zia a Firenze il 1917 (Gigliola Tallone, Virginia Tango Piatti (Agar) La vita, le opere, la corrispondenza, Transfinito 2010).
Mimmo disegnó in quegli anni alcune deliziose tavole per illustrare il libro per ragazzi di Agar “Rori e le sue bestie”, della collana Zia Mariú, pubblicato il 1926.


Agar, Rori e le sue bestie, collana Zia Mariú, Paravia, Torino 1926. Illustrazione di Mimmo Poggi.

L’affetto tra nipote e zia resta immutato nel tempo, e Virginia, che nella sua tribolata e coraggiosa vita, aveva anche provato l’accoglienza nei Campi rifugiati Svizzeri, al suo ritorno in Italia andrá a riabbracciarlo proprio a Cassino, mentre attende alla ricostruzione.
Giuseppe Poggi nel 1944, entrato nel Genio Civile e trasferitosi a Cassino, svolse l’incarico di progettista e direttore dei lavori di ricostruzione dell’Abbazia di Montecassino.
La figlia Andreina, attenta biografa del padre, mi ha concesso di inserire in questa sede il breve estratto dal libro inedito di Giuseppe Poggi, autobiografia che ripercorre dieci anni della ricostruzione, dal 1944 al 1954.
Ritengo straordinaria la testimonianza diretta di chi ha condotto la ricostruzione di quei luoghi massacrati dalla guerra. In questa paginetta, indica come “piccolo monaco” Don Luigi De Sario. Ecco le parole di Adreina Poggi:
“…La pagina ricorda, oltre a mio padre, Don Luigi De Sario, che aveva accolto mio padre a Montecassino e con il quale aveva condiviso molte attività, sia per la ricostruzione del “conventino”, il primo edificio rifatto e adibito a foresteria, che per la ricostruzione dell'abbazia e di varie chiese del cassinate. Don Luigi è venuto a mancare il 4 febbraio scorso, alla bella età di 98 anni [4 febbraio 2011]. Dopo la morte di mio padre eravamo rimasti in contatto, memori del fatto che Don Luigi aveva celebrato il matrimonio dei miei genitori, il 16 febbraio 1948 e battezzato mio fratello Giancarlo, nel 1951, e affascinati dalla persona. Era intelligente e arguto, oltre che artista (compositore di musiche per organo e organista). Mia madre gli telefonava spesso e, d'estate, non mancavamo di andarlo a trovare - finchè è stato possibile”.
Mi auguro di vedere presto alle stampe il libro, da cui é tratto il piccolo saggio, documento storico affascinante, uscito dalle mani e dalla testa di un uomo sensibile e colto, di profonda fede e illuminato architetto.
E rivolgo qui un pensiero alla zia Agar, tra i rarissimi intellettuali non interventisti all’epoca della Grande Guerra, e la piú esposta pacifista italiana in epoca fascista. Insieme alle donne del pacifismo internazionale, ben sapeva che esistono molte “giustificazioni” per scatenare una guerra, in cima a tutte le ragioni di potere economico- basta leggere il rapporto del Congresso di Washington del 1924 a cui partecipó come delegata italiana- ma era soprattutto dolorosamente consapevole che non esiste una guerra “giusta”.
La guerra é sempre orrore, sangue e distruzione, come la tragedia di Cassino distrutta dai bombardamenti dei “liberatori”.


Mimmo Poggi con zia Virginia, la moglie Elide e la figlia Andreina, Cassino 1950 circa

Giuseppe Poggi, da “L’avventura di Cassino”, 1954

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Per la storia devo dire che arrivai a Montecassino quel giorno, non dalla carrozzabile che gira intorno all’Abbazia, ma dalla strada mulattiera. Già dall’ultimo tratto di questa mulattiera, sostando in una specie di belvedere con una croce spezzata, avevo dato uno sguardo all’enorme mucchio di macerie, tutto quanto rimaneva della celebre abbazia. Sboccato nello spiazzo, in quella specie di recinto sacro dell’Abbazia in corrispondenza dei ruderi della foresteria femminile ora scomparsi, fui invaso da tanto inesplicabile sentimento di rispetto per quelle tracce materiali del colossale sacrilegio che non ebbi la forza di dirigermi subito verso l’Abbazia.
Ricordai che lo scopo della mia visita era il Conventino provvisorio, il cosiddetto “Ricovero per sinistrati di Montecassino”, e per questo, la zona sopraelevata sul ciglio delle mura ciclopiche e protetta da un roccione, sulla quale si scorgevano i ruderi della foresteria San Giuseppe mi parve subito la più adatta. Aggirandomi tra quelle macerie in lungo e in largo, mi misi perciò subito a fare il rilievo del terreno e dei ruderi. L’operazione che era ormai al termine dovette sembrare sospetta a un piccolo monaco che si era intanto avvicinato, il quale, delicatamente ma con una certa decisione, mi affrontò. Saputomi ingegnere del Genio Civile incaricato di eseguire, per conto dell’ingegnere Beta, i rilievi necessari per lo studio del progetto del Conventino, cambiò subito faccia e si fece premura di accompagnarmi dall’Abate.
Eccoci giunti all’ingresso monumentale dell’Abbazia che si apre in un corpo di fabbrica avanzato nell’angolo sud ovest dell’Abbazia, rimasto con le sole strutture del piano inferiore grosso modo in piedi. In questo si trovano uno scalone monumentale, la cella del Santo con altre piccole cappelle semidistrutte e pochi altri locali. Di altro in piedi non c’era che la parete esterna di quasi tutto il lato ovest a strapiombo sulle mura ciclopiche. Questa parete, come tutti i quattro lati dell’Abbazia era visibile dal basso della vallata e si notava ancora dalla strada Casilina provenendo da Roma prima di giungere a Cassino.
“Vede questa porta dell’ingresso monumentale com’è alta?” disse il piccolo monaco “quando dovemmo fuggire dopo il bombardamento le macerie raggiungevano quasi il livello dell’arco, e il nostro padre Abate che è vecchio dovette faticare non poco a issarsi fino a quell’altezza per scavalcarlo”.
Percorremmo in salita un interminabile androne con la volta a tutto sesto abbastanza lesionata che era carico delle macerie dei piani superiori; alle pareti frammenti di lapidi antiche. Le aperture verso le facciate ovest facevano intravedere lo spessore dei muri di qualche metro; i gradini tutti scheggiati erano ancora ingombri in qualche punto di macerie. Il monaco mi fece notare a destra entrando un’edicola e una specie di roccione ricordante vari miracoli di San Benedetto indicandomi anche la cella del santo; pressappoco nel punto dove sorgeva una torre romana.
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Percorso tutto lo scalone, da un passaggio di fortuna sboccammo nel chiostro del Bramante. Il chiostro era a mala pena riconoscibile. Quasi totalmente crollati i porticati; al posto della vera del pozzo e della cisterna una voragine. Si vedeva ancora ai piedi dello scalone monumentale la statua del Santo decapitata ma quasi intatta, con il caratteristico corvo. Le macerie superavano di circa tre metri il livello del chiostro. Dal lato destro guardando la scalea, in corrispondenza della testata ovest del grande refettorio rimasto parzialmente in piedi, un discreto tratto del sottostante porticato si vedeva affiorare dalle macerie quasi intatto. Al piede di questo tratto di porticato, tra le macerie si trovavano le tombe di alcuni soldati tedeschi paracadutisti morti quando l’abbazia già distrutta era diventata un Caposaldo tedesco.
Il monaco mi condusse, a traverso una specie di sentiero scavato tra le macerie fino a una piccola porta nei ruderi del Collegio. “Qui abitano i monaci” mi disse: “stia attento nello scendere a non inciampare”. Per una scala tutta malandata scendemmo in un sotterraneo che prima girava a destra percorrendo un tratto della facciata ovest, tutto ingombro di strani attrezzi, animali imbalsamati, molti libri antichi ammuffiti ecc. che ospitava anticamente il museo di storia naturale. Infine ci trovammo alla porta della vera e propria abitazione dei monaci che era costituita da un altro corridoio coperto a volta che girava ad angolo retto, che era parallelo a un tratto di facciata nord, il quale serviva ora da parlatorio, refettorio, aula di studio, e forse anche da cucina. Il locale comunicava mediante una botola aperta a suo tempo dai tedeschi con un’altra cantina sottostante comunicante con l’esterno nella quale abitavano i nostri soldati del Genio addetti ai primi sgomberi dell’Abbazia. Il corridoio era addossato a un dormitorio parallelo che serviva da dormitorio per i monaci e per l’Abate.
L’accoglienza dell’Abate Gregorio Diamare non fu troppo incoraggiante. Dopo avermi fatto abbastanza attendere si presentò chiedendomi senza troppi complimenti che cosa volessi. Lo guardai scoraggiato pentendomi di essere venuto da lui all’insaputa del mio Superiore che poteva forse avere già preso con lui, già a Roma gli accordi occorrenti; ma, posando lo sguardo su quella figura imponente burbera e sgraziata ma nobile, dallo sguardo severo ma non ostile, la mia timidezza scomparve in modo inesplicabile. Alla fine del nostro colloquio fu l’Abate a insistere per farmi rimanere a pranzo. E il pranzo fu davvero modesto come quello di una famiglia di povera gente, essendo le risorse della comunità ridotte davvero ai minimi termini e, proprio per questo, lo gradii moltissimo. Naturalmente si mangiò in silenzio e per la prima volta assistetti alla lettura, obbligatoria durante i pasti nelle comunità benedettine, di un passo della Regola di San Benedetto oltre a quella di alcune pagine della Bibbia.
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Giuseppe Poggi tra due collaboratori, Montecassino