Gigliola Tallone gennaio 2012

CANZONE IN MORTE DI GIUSEPPE PELLIZZA DA VOLPEDO

Una poesia di Virginia Tango Piatti “Agar”

Virginia ha scelto per quest’ode dedicata a Pellizza la forma di “canzone”, la piú adatta, a mio parere, per la dolorosa dedica all’amico e la sua poetica pittura. Virginia conosceva bene Giuseppe, e lo frequentava assiduamente mentre era ospite del cognato Cesare Tallone, marito della sorella maggiore Eleonora. Aveva vent’anni al suo approdo a Bergamo, per assistere la sorella alla sua prima gravidanza. Irene, la primogenita, nasce a gennaio del 1889 e dopo pochi mesi Giuseppe Pellizza “Pepin” immortala con splendide fotografie il suo amato professore e la moglie con la bambina.
Irene, come si legge in posteriori lettere di famiglia, diventa la coccola di tutti gli allievi di Tallone che frequentavano la casa del professore.
Virginia viveva a Roma coi genitori, ma si recava a Bergamo per alcuni mesi all’anno, e per dieci anni di fila fu seconda mamma affettuosa e energica dei figli della sorella, fino al 1899, quando Tallone vinse la Cattedra di Brera lasciando la Carrara di Bergamo, che deteneva dal 1885.
L’ambiente del cognato e la sorella, poi frequentato a Milano, dall’inizio fu fondamentale per la giovane Virginia. Si era creato un vivace cenacolo informale ed eterogeneo di artisti, cui si univano alcune personalitá, in gran parte operosi industriali, suoi assidui collezionisti e amici, tra quali Andrea Gregorini industriale dell’acciaio e il direttore Invernizzi, i conti Curó e Suardo e le illuminate figure dei fondatori del movimento socialista bergamasco, il colonnello garibaldino Vittore Tasca, l’anziano pittore Cesare Maironi, gli avvocati Tiraboschi e Arcangeli, Battista Zitti, volontario della guardia nazionale al seguito di Garibaldi, Emilio Gallavresi, presidente della coperativa di Brembate, l’ingegnere e inventore Guglielmo Davoglio, marito della sorella di Tallone Linda Maria, segretario del movimento socialista. Ma ancor piú affascinate era per lei seguire i progressi degli allievi, perché dalla fine dell’ottocento studiava scultura, prima con Cencetti e Trabacchi nel loro atelier romano di via Flaminia, poi col Bistolfi a Torino.
Il matrimonio, avvenuto il 1905 con Antonio Piatti, allievo a Brera di Tallone, presto diventa insostenibile per il carattere del marito, e Virginia con una bimba piccola, e dopo aver perso due nati di pochi mesi il 1907 e 1908, viene abbandonata e deve provvedere a sé stessa, costringendosi a lasciare il suo sogno artistico, con una ferita spirituale che non si rimarginerá mai. Ma all’epoca della scuola del Pelizza, dal 1888 al 1890, la sua dedizione all’arte era assoluta, insieme alla passione per la poesia.
Ne dará prove notevoli, e fu pubblicata da Mario Novaro nella prestigiosa rivista “La Riviera Ligure”, nell’Illustrazione Italiana e in tante altre riviste che ben figurano nella bibliografia del mio libro dedicata a lei. Sará prolifica giornalista, di scrittura asciutta e affascinante, toccando temi che vanno dall’arte, trattata con profonda sensibilitá e conoscenza, all’infanzia, all’attualitá, alla cultura e alla politica, restando quasi l’unica intellettuale non interventista alla Grande Guerra, e ancor prima di quella libica, con energiche e coraggiose denunce nei suoi articoli.
Si verserá alla causa del pacifismo femminile internazionale, di cui fu delegata italiana, fondando e dirigendo il 1920 la sezione WILPF di Firenze.
In pieno regime Fascista fu l’ultima pacifista italiana fino al 1926 e quella che piú pene scontó. Poi segue l’avventurosa vita di esiliata a Parigi e l’appoggio alla causa di Carlo Rosselli di cui fu recapito parigino.

Torniamo a Bergamo nei tempi piú idilliaci per la giovane Virgo, come allora si firmava, prima di assumere lo pseudonimo emblematico di “Agar”, all’abbandono del marito.
Va ricordato che la frequentazione tra Pellizza e il suo professore che definí “l’unico fra i mei maestri”, continua dopo gli studi a Volpedo, alle esposizioni e a Milano, fino alla morte per suicidio.
Pochi mesi prima del fatale giugno 1907, Pepin era in visita a Tallone all’Accademia di Brera, come testimonia Carlo Carrá. Quindi anche Virginia avrá avuto molte altre occasioni d’incontro, assidua in casa Tallone a Milano come lo era stata a Bergamo.
Alla fine del secolo, Virgo, che per la sua piccola statura e la sua agilitá era chiamata dallo scultore Giuseppe Trabacchi “sorcetta”, è legata da amicizia sentimentale con l’allievo di Tallone Giovanni Trussardi Volpi, che frequenterá anche i primi anni del ‘900 a Roma, dove Giovanni si era recato, su raccomandazione di Tallone, presso lo sudio di Mancini. Una lettera di Virginia del 1902, l’anno della dolorosa perdita del padre, ventila anche un possibile matrimonio, ma non restano altri documenti.

La poesia
Con pochi tratti espressivi, anche se non menzionate nei titoli, riconosciamo tre magnifiche opere di Pellizza: Girotondo, Lo specchio della vita e il Quarto Stato. Dalla descrizione del “casolare che il ruscelletto cinge”, è molto probabile che Virginia fosse stata in visita alla casa di Volpedo insieme al cognato e la sorella.
Lei, donna che ha superato con coraggio dolorosi eventi, è evidentemente scossa dalla terribile rinuncia alla vita in etá cosí giovane e si chiede in un verso “L’alta gioia di amare or pietosa la Morte ti consente?”.
La morte della giovane moglie Teresa aveva a tal punto prostrato il sensibile Giuseppe “forte sognatore”, che il “vasto mondo” non aveva piú voce per lui, e niente poterono né il richiamo dell’arte, né l’amore dei genitori, né le piccole figlie.
Alla chiusa, quella donna che posa sulla “precoce bara” di Giuseppe un “umile fiore”, è lei, la dolente amica Virginia, in omaggio alla “fatale, generosa e rara dedizone d’amore”, quasi a mitigare quel precedente verso “Ma troppo fiero irrompe il mio rimpianto!”.
Pur non essendo datata, è plausibile che la “canzone” sia stata scritta l’anno stesso della morte del Pellizza, il 1907, come per altre sue poesie dedicate a persone amate, scritte in prossimitá della perdita.

Canzone in morte di Giuseppe Pellizza da Volpedo

Tu che nel sole la pupilla ardita
fissasti, or nel profondo
abisso del mistero ti sommergi
con pari ardir, volenteroso. Avea
poi ch’Ella era partita
perduta la sua voce per chiamarti
il vasto mondo, e l’anima smarrita
tra il vago spaziare de l’Idea
non piú tutta accendea
la lusinga e il fervore sacro de le arti.

E le scene campestri erano mute
per Te, né al casolare
che il ruscelletto cinge avevi pace,
o solitario di Volpedo? Invano
tra le erbette minute
s’ammantavan di fiori il campo e gli orti
ed occhieggiavano mille luci astute
per rianimarti al dolce operar sano,
mentre festosi al piano
correan nel girotondo i bimbi assorti.

Né piú l’acqua corrente e l’andar molle
de le pecore in fila
diceano al cor la mite lor parola,
né d’alto sdegno ti accendean le grida
de la turba che, folle
per l’oppressione e per la fame, chiede
mercé pei nati o insanguina le zolle
per l’odierno dissidio, o la sua sfida
a l’avvenir confida
mentre compatta nel gran sole incede.

Ma sola ormai Lei ti chiamava, o forte
sognatore, Lei sola,
e luceva una sola visione
ne gli occhi tuoi profondi ed aquilini,
Lei, dal regno di Morte,
Lei, con le braccia tese a Te veniente
e ancora nel desio, fida consorte,
ti accendea de l’amplesso, oltre i confini
del mondo, tra i divini
sussurri del fatal giro ascendente.

Voller chiuderti il passo l’ardita
tua giovinezza, e l’opra
d’arte incompiuta e i tuoi dolenti vecchi
e le tue bimbe, ah, le tue bimbe ignare.
La tenebra la vita
era e la Morte ardeva assiduamente,
follia sublime. Ah, dimmi, l’infinita
pace che a lei chiedesti or puoi gustare?
L’alta gioia di amare
or pietosa la Morte ti consente?..

O canzone dolente,
non io vorrei mandarti audacemente
a fargli onore, tra le pompe meste..
Ma troppo fiero irrompe il mio rimpianto!
Né disconvien su la precoce bara
questo ch’offre una donna umile fiore
al puro idillio agreste
di quella vita d’arte, al dolce incanto
di una fatale, generosa e rara
dedizione d’amore..